Fabrizia compagnaIntervista
Napoli si ferma
in tempo
Fabrizia Ramondino racconta la «sua» Napoli, città moderna e ingovernabile
(di Guido Ruotolo, "Il Manifesto", quotidiano comunista, s.d.)

Del suo ultimo lavoro, Dadapolis, scritto a quattro mani insieme ad Andreas F. Müller, Fabrizia Ramondino dice: «È un caleidoscopio, un collage di testi da affidare all’intelligenza del lettore. Uno strumento per guardare in modo nuovo Napoli». Fabrizia Ramondino racconta che nell’editing redazionale sono stati esclusi alcuni brani tra i quali uno di Charlot. Nella parte finale del film Monsieur Verdoux, il protagonista condannato alla ghigliottina, prima di morire confessa al suo avvocato: «Ho commesso un unico errore. Avrei dovuto fermarmi in tempo e accontentarmi di un certo numero di vittime. Felice il popolo napoletano che sa fermarsi in tempo».
All’autrice di Althénopis e di Un giorno e mezzo, l’immagine di Napoli, città «senza tempo, senza futuro», non piace. «Non sono daccordo che Napoli è una città senza tempo – ribatte -. Qui la concezione della storia e del tempo sembra essere stata scritta da Giambattista Vico o, al contrario, Vico l’avrebbe potuta tranquillamente mutuare dalla città».

– Un accavallarsi di passato e presente?
Non è il tempo definito dell’illuminismo, preparato dal razionalismo cartesiano, il tempo che si svolge con una linea retta, progressiva. Non è neppure un tempo che si svolge per salti e, quindi, per miglioramenti dialettici come in Hegel, condizione trapassata poi, in parte, in Marx. È un tempo che non segue la linea del progresso, ma che presuppone che si possa anche tornare indietro.

– I corsi e i ricorsi storici vichiani?
Vico analizza a lungo il ritorno della nuova barbarie. Per lui, per esempio, il primo medioevo ha distrutto tutto l’edificio della civiltà romana. Cosa è stato il nazismo e, in parte, lo stalinismo se non la riproposizione della barbarie? In un periodo in cui sembrava che si affermasse il primato della civiltà dello sviluppo, spunta il nazismo, una barbarie mai conosciuta in epoca precedente. Il carico umano dei camion diretti a Treblinka diventano «merce». Un eccidio di milioni di persone che poteva accadere in altre epoche storiche, ma mai in quella dimensione, e che invece si è presentato non più di mezzo secolo fa.

– Napoli è dentro questa dimensione di corsi e ricorsi storici?
Napoli è stata sempre consapevole di questo. Perciò, tornando al dialogo di Monsieur Verdoux, il napoletano riesce a fermarsi in tempo. Non si ferma in tempo chi crede che le cose vadano sempre avanti.

– In questo rincorrere il tempo, secondo te, in quale epoca si ricolloca oggi Napoli? Jean Noel Schifano propone il barocco.
Anch’io accenno in Un giorno e mezzo al barocco. Barocco non come un determinato movimento artistico di un’epoca data, ma come senso drammatico dell’esistenza e apertura verso l’estasi, la non paura del piacere limitato, la non angoscia verso di essa che è invece espressa da tutta la civiltà occidentale. Vorrei comunque demitizzare l’idea che Napoli sia indietro rispetto ai tempi.

– Non è una contraddizione rispetto alla tua visione vichiana del tempo a Napoli?
Contesto l’idea che era di Nord-sud, di Francesco Compagna ma anche del Pci, che Napoli è arretrata rispetto al mondo moderno. Resto fedele a certe analisi per cui lo sviluppo capitalistico produce sottosviluppo e, quindi, mi ostino a parlare di questione meridionale, di rapporti nord-sud del mondo. Insomma Torino, Milano non esisterebbero senza il Mezzogiorno. L’agricoltura o la siderurgia di Napoli e del Mezzogiorno sono state sacrificate rispetto all’agricoltura capitalistica preconizzata dal Mercato comune o dalle direttive della Cee. Così, nel dopoguerra, nella divisione internazionale del lavoro gli americani pensavano che il Mezzogiorno dovesse essere la California dell’Italia, un paese sostanzialmente agricolo. Michele Fatica analizza molto bene, nel suo libro sulle origini del fascismo e del comunismo a Napoli (1911-1915), la realtà industriale della città, la presenza molto forte e radicata della classe operaia. Napoli fino all’Unità d’Italia era la più grande città del paese.

– Nel tuo ultimo libro, Dadapolis, presenti Napoli come un caleidoscopio. Napoli, dunque, come la sommatoria di 1.000 parzialità?
Certo. Napoli ha molte facce, come le hanno d’altronde tutte le grandi metropoli. In questo nostro centro storico, per esempio, c’è un forte insediamento di proletariato precario che convive con la città degli uffici, degli affari, delle attività terziarie. In questo centro storico è diffusissimo il lavoro a domicilio. Ma ciò non è un aspetto precapitalistico, arretrato, artigianale dello sviluppo. È il prodotto di questo moderno sviluppo capitalistico. Napoli esporta l’80% dei guanti italiani, eppure in città, ufficialmente, non esiste una sola fabbrica di guanti.

– Qual’è la tua immagine della città?
Napoli è una città complessa che non si può semplificare. Luigi Compagnone parla della camorra, ma Napoli ha anche altro. Dal punto di vista sociologico-politico, proprio perché complessa, la città invita ad essere indagata. C’è bisogno di un lavoro quotidiano, paziente, d’inchiesta. Dal punto di vista letterario la complessità richiede agli scrittori di essere consapevoli che chi scrive di Napoli, parla della «sua» Napoli, della sua esperienza circoscritta, interiore della città che, per questo, non può coincidere con la realtà esterna. Insomma è un invito a non cadere in nessun tipo di schema, di teoria troppo facile sulla città. Se vogliamo, è un invito al pensiero debole della città.

– Pensiero debole e mancanza di progettualità. Non è questa forse la patologia più acuta di Napoli?
Progetto? Quale progetto, l’idea-forza di Roma? Si dice che Napoli è stata la città di Achille Lauro. Ma, negli anni ’50, a Torino, alla Fiat, c’era Valletta. Lauro era un imprenditore capitalistico. Lauro come espressione del potere politico? E cosa dire della dinastia Agnelli che questo potere politico esercita, e non solo a Torino?

– Napoli città che non sopporta le regole. Barocca, appunto, come afferma Jean Noel Schifano?
Il barocco ha le sue regole. Non è disordine. È equilibrio fra pieno e vuoto, tra concezione drammatica dell’esistenza e capacità di godere del momento presente. I napoletani hanno proprie regole. Proprio in questi giorni con un amico, Mario Martone, riflettevamo sul comportamento dei napoletani nel traffico. I napoletani fanno benissimo a non fermarsi ai semafori che segnano rosso, perché la maggior parte degli incroci, da noi, non sono perpendicolari, ma curvi o sbilenchi, e allora ci si deve comportare empiricamente. D’altronde, se non ci fossero delle regole, non si capirebbe perché Napoli viva senza grossi incidenti.

– Le attese di Napoli. Qualcuno le chiama i miti della città. Esistono?
Della città, cosa significa? La città è fatta…

1) continua…

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