Fabrizia RamondinoIl mare lava
ogni storia

Napoli e i sessantottini.
Fabrizia Ramondino è riuscita a raccontarli in un romanzo anti-romanzo che è un puzzle impossibile perché tutto viene assimilato

di Giovanni Giudici
("L’Unità", 1988)

Fabrizia Ramondino
Un giorno e mezzo
Einaudi
Pagine 208, lire 22.000

Se chi leggerà questa recensione preferisce che gli parli di Un giorno e mezzo, romanzo di Fabrizia Ramondino, appena come di un romanzo su un gruppo di ex-sessantottini napoletani – accampati nella villa di una nobile famiglia decaduta e in casuale promiscuità con gli estremi virgulti della medesima – non avrò alcuna difficoltà a scegliere questa linea. Con l’avvertenza, da non sottovalutarsi, che i sessantottisti o sessantottini di «Villa Amore» agiscono e soprattutto chiacchierano essendo non più nel 1968 ma già nel 1969. E certamente più di un nostalgico lettore, ormai più vicino ai cinquanta che ai quaranta, non potrà fare a meno di identificarsi nei loro discorsi, nella loro erotica disperata promiscuità, nella loro progettualità antagonista che gira però sempre più a vuoto e in parallelo con il patetico gressus ad mortem di altri personaggi che, a quel tempo e nel quadro di certi stati d‘animo, sarebbero stati considerati alla stregua di innocue larve, retaggio del capitalismo in sfacelo. Però non è qui l’essenziale di questo romanzo-antiromanzo, che a dire il vero è di lettura forse un po’ laboriosa per chi voglia o pretenda di sapere quello che insomma «succede». Infatti in Un giorno e mezzo non succede quasi niente: c’è un anziano viveur che muore e una svampita e scialba ragazza che, con un sospiro di sollievo, vede arrivare le sue ritardate mestruazioni. Si chiama Erminia ed è fra i personaggi del libro, poco più che una comparsa. L’essenziale è altro: è, la rappresentazione, a un livello eccellente di scrittura e con un’invidiabile spesso finezza di notazioni, di un accadere in cui non accade nulla, specchio impietoso del nostro vivere, con un andamento che è quasi da reperto di cineteca e con un «parlato» di chiacchiera e di sminuzzamento esistenziale, che nel caso specifico riflettono assai efficacemente un’appena pregressa contemporaneità. Siamo, dicevo, nel 1969 (epoca che è, a un tempo, prossima e remota) e siamo a Napoli, città alla quale l’Autrice (napoletana essa stessa) riconosce o ascrive «caratteristiche» che consistono nell’ «assimilare a sé l’altro come usa il mare con i relitti terrestri, brandelli in plastica, pezzi di legno, cocci di maiolica, frammenti di vetro, di cui smussa le porte aguzze e taglienti, fa svanire le forme originarie, assimilandole sempre più alla sfericità e rendendole inadatte al sapiente incastro del puzzle».
Dunque, «Un giorno e mezzo» andrà letto come romanzo di una generazione e, al tempo stesso, di una città, dove tutto ciò che succede o sembra succedere travalica incessantemente in un «non successo», lasciandoci pensosi e sconcertati davanti a interrogativi senza risposta come quelli che a volte può capitarci d’incontrare davanti alla fine di un qualcosa che abbia rappresentato per noi la vita, più che la vita. «Si chiedeva» scrive la Ramondino di uno fra i tanti personaggi dei quali il lettore difficilmente riuscirà, nel primo approccio, a trattenere tutti i fili «come fosse possibile in amore conoscersi così intimamente e subito dopo passarsi accanto senza nemmeno vedersi. E come quella intimità assoluta potesse risultare poi così effimera non da lasciare spazio alla riconoscenza, forse perché, come una sconfitta bruciante, permane tra gli amanti il ricordo di un segreto non più comunicabile, ormai speso». Ma questa ramondiniana Napoli, questo frantumato e irricomponibile puzzle, non sarà alla fine l’alta e poetica metafora della vita stessa, della sua insensatezza svagata e sublime, della sua irriducibilità a un disegno secondo ragione e del suo essere tutt’al più governata dalla smorfia dei sogni o dall’influsso degli astri indifferenti e lontani? Non è un caso che questo libro, ironico e patetico, scandito da capitoli che si definiscono con elegante casualità ciascuno dalla frase iniziale, si chiuda con un «Indice-calendario» dove la bistrattata ed anche abusata astrologia ha la parte cosiddetta del leone.
Un divertimento? Esito a credere fino in fondo, tante sono le false verità alle quali la nostra cultura (in tutti i sensi) ci ha abituati a credere. L’Autrice non può dominare più di tanto la propria creatura, il libro: più che scriverlo, se ne lascia scrivere, demiurgo senza potere contro la deriva delle esistenze, delle parole, delle speranze, delle delusioni. Tutto arriverà: la morte del vecchio gentiluomo alcolizzato, le mestruazioni in ritardo di Erminia, il Walter Scott Palumbo portavoce degli extra-parlamentari di Pisa. E tutto finirà nel non ricomponibile, nel non recuperabile: anche il gioioso squittire di una bambina senza padre che, nel romanzo di questa autentica scrittrice, si chiama vezzosamente e con una punta di snobismo «alternativo», Pio Pia. Ma come correre dietro ai nomi? Sono tanti, si confondono, né più né meno che i volti della storia, di questa storia, di tutta la storia.

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