Se in Italia
tornano
i forcaioli
di Goffredo Fofi

(l'Unità, 23 ottobre 2011)
Goffredo

Ci sono parole del linguaggio politico di un tempo che sono scomparse dal vocabolario anche se, si spera, non dal sentire comune. Una di queste è «forchettoni», inventata più di mezzo secolo fa da qualche buontempone del Pci per indicare i boss della Dc, ma che oggi potrebbe avere un valore universale, almeno in chiave metaforica, per indicare i super-ricchi e la classe dirigente palese e quella occulta (la finanza). Un’altra che mi è tornata in mente leggendo i commenti di politici e giornalisti sugli scontri di Roma di otto giorni fa è «forcaioli».


Ma prima di affrontare questa bassa materia, sarà meglio aggiungere qualche considerazione, cercando di farlo a freddo, sui manifestanti del 15 scorso. C’ero anch’io, per un primo tratto e mi ha impressionato, anche se a distanza, la violenza organizzata, organizzatissima, di un’infima minoranza di «arditi» che non mi sembra abbiano molto a che vedere con la tradizione storica dei violenti di sinistra, anarchici e autonomi compresi. Anche se molti degli ex sono pronti a metterci su la bandierina, e ho sentito persino paragonare i «violenti» a quelli di piazza Statuto, Torino 1962, ma lì io c’ero e posso testimoniare (se si vedano gli atti processuali e il bel libro di Dario Lanzardo) che i moti nacquero dall’incontro tra i giovani della Fgci e i giovani operai immigrati delle piccole fabbriche. I manifestanti violenti di oggi sono, mi sembra, un fenomeno nuovo e non solo italiano, frutto di un’epoca radicalmente nuova che mi pare solleciti, più che risposte di sinistra, risposte più o meno apocalittiche che concentrano in sé una mescolanza di idee di destra e di sinistra. È questa una tendenza che richiede analisi approfondite e accorte per poter essere compresa e, quando necessario, adeguatamente combattuta. Certamente non si tratta di «compagni che sbagliano», anche se sono cresciuti sull’assenza di idee di sinistra credibili e adeguate ai bisogni dell’epoca. Perché, che cosa vuol dire essere di sinistra, fuori dalle retoriche dei salottini benestanti e dei residui burocratici, e solo tali, del passato? Una cosa molto semplice e molto disattesa: è sinistra l’organizzazione degli oppressi, variamente oppressi, per una società giusta, e di questo non c’è per ora segno in Italia, e l’adesione alle loro lotte e ideali di gruppi di persone che, per amore di giustizia, si mettono dalla parte degli oppressi, ritenendosi in qualche modo oppressi essi stessi, dall’ingiustizia subita da altri.

È un discorso antico che l’epoca in cui viviamo prospetta in termini certamente nuovi anche se i «teorici» della sinistra vecchia e nuova non sembrano essersene accorti, ma non diversi da quelli di ieri nella sostanza e nella spinta etica, che è quella della ribellione all’ingiustizia subita o vista subire da altri. Il problema non è solo quello di un manipolo di violenti, che hanno dalla loro una radicalità e una capacità di organizzazione che non hanno le maggioranze degli «indignati», ma cosa opporre di più saldo e forte che sia adeguato ai bisogni del tempo, alla crisi che ci è stata imposta, da un manipolo di criminali in grado di condizionare e far schiava la politica, che sono loro i primi responsabili di ogni violenza, distruttori del pianeta e nemici di ogni giustizia. Il problema è la stragrande maggioranza degli «indignati» incapace per ora di organizzarsi e di reagire con modi nuovi, come altrove già succede, alle violenze del sistema e a quelle di una minoranza organizzata.

Faceva impressione nel corteo romano l’andamento iniziale da passeggiata dimostrativa o da marcia della pace, l’assenza pressoché assoluta di servizi d’ordine e perfino di cordoni, l’impreparazione all’eventualità di scontri: un’impreparazione dovuta al mancato trasferimento di modelli, esperienze, riflessioni da una generazione all’altra, a questi «nuovi» sia da parte della vecchia sinistra che da quella che si proclamava nuova.

Un vuoto scandaloso. La via d’uscita ci sarebbe ma è appunto quella che non va bene a nessuno dei partiti e gruppi, dei nuovi e vecchi ideologi, e che si chiama disobbedienza civile, una proposta che evidentemente non appare consona alle mistificazioni italiche dei violenti, come dei nonviolenti, dei politici e dei fedeli servitori del potere economico. Torniamo ai «forcaioli». Uomini politici e giornalisti hanno dato prova di un coraggio da leoni nel gridare al lupo sulle loro gazzette e nell’invocare le maniere forti, leggi liberticide e abusi polizieschi. Sono tanti e tutti eroici, costoro, nel chiedere e nell’invitare il potere a innalzare forche per i dissidenti, per i non-accettanti. E sono loro, io penso, tra i principali nemici della democrazia e della giustizia oggi in Italia, e non solo dei movimenti che ineluttabilmente, buoni o cattivi, verranno.

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Andrea Zanzotto
10 ottobre 1921 – 18 ottobre 2011

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Ingeborg Bachmann (4)
Ingeborg Bachmann
Klagenfurt, 26 giugno 1926
Roma, 17 ottobre 1973

Ingeborg Bachmann (3)Ingeborg Bachmann
La Boemia è sul mare



Se qui sono verdi le case, in una casa entro ancora.
Se qui sono integri i ponti, cammino su suolo sicuro.
Se in ogni tempo pena d'amore è perduta, qui contenta la/ perdo.

Se non sono io, è un altro ed è un io come me.

Se qui una parola sino a me confina, lascio che confini.
Se la Boemia ancora è sul mare nei mari io credo di nuovo.
E se ancora nel mare io credo io spero nella terra.

Se sono io, lo è un altro ed è a me uguale.
Più nulla per me io voglio. Io voglio naufragare.

Al fondo, sì, sino al mare, lì la Boemia ritrovo.
Sul fondo sospinta, sereno è il risveglio.
Ora so dal profondo e più perduta non sono.

Venite boemi voi tutti, gente del mare, puttane dei porti e navi
disancorate. Non volete essere boemi, illiri, veronesi,
e veneziani voi tutti. Le commedie recitate che sono fatte per ridere/
e inducono al pianto e cento e più volte sbagliate,
come me che tanto ha sbagliato e prove mai ho superato,
sì, l'una e l'altra volta le ho superate.

Come la Boemia le ha superate e un bellissimo giorno
il mare le fu donato e adesso è sul mare.

Io confino ancora con una parola e con una terra diversa,
io confino, anche se poco, sempre più con tutto,

un boemo, un errante, che nulla ha, nulla trattiene,
capace ancora soltanto di vedere dal mare, che è controverso, la terra/
         della mia Elezione.

Ingeborg Bachmann (2)

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Steve Jobs
e il pianto dei giovani

di Goffredo Fofi
(l'Unità, 16 ottobre 2011)

Goffredo Fofi
Ho scritto per il prossimo numero di «Gli asini» un articoletto che mi è venuto di getto sentendo guardando leggendo quel che accadeva in America e ahinoi anche in Italia, perfino con manifesti della nostra pseudo sinistra, e mi permetto di riproporlo qui con qualche modifica, dopo aver letto un altro articolo uscito proprio su queste pagine intitolato significativamente L’uomo dei sogni.

Mi ha colpito il pianto giovanile sul cadavere di Steve Jobs, che mi ha ricordato quello senile di qualche anno fa sul cadavere di Gianni Agnelli (muoiono anche i “grandi” e i “benefattori dell’umanità”, se Dio vuole!, grazie alla Natura e a quel prodotto del Capitale chiamato Cancro). Nel pianto dei giovani su Steve Jobs ho letto la stessa incoscienza. La stessa imbecillità? E se allora scandalizzava vedere come i vecchi operai piangessero il loro sfruttatore – effetto del Cancro chiamato Televisione – non scandalizza di meno vedere oggi dei giovani piangere uno degli artefici della loro alienazione dall’intelligenza del mondo e dalla possibilità di essere se stessi, coscienti, ragionanti, capaci di intervenire sul destino che la società degli Steve Jobs ha deciso per loro.

Il paradosso maggiore sarebbe constatare, come è assai probabile, che molti degli stupidi orfanelli di Steve Jobs siano anche molti dei manifestanti di queste settimane contro Wall Street e l’alta finanza manipolatrice e distruttrice – l’un per cento della popolazione mondiale che campa alle spalle del 99 per cento, ha detto una rediviva e sensatissima Naomi Klein. Si potrebbero accampare contro Jobs molte ragioni tradizionali di ripulsa, per esempio lo sfruttamento dei lavoratori cinesi, per esempio il costo dei suoi strumenti rispetto a quelli di altre case, per esempio l’ossessione del lucro su ogni cosa brevettata, per esempio l’adesione alla diabolica considerazione antica di certo puritanesimo americano che ha sempre visto nel successo economico di un individuo un segno divino (protestantesimo come anima del capitalismo, Weber dixit) con la ripetizione più attuale e post-moderna del mito del self-made man “dall’ago al milione”. Eccetera.

Ma quello che più colpisce nel lutto sconsiderato di questi giorni è che fossero i giovani a dimostrarlo con la stessa logica e le stesse manifestazioni che per un Elvis Presley, un James Dean e magari un Che Guevara o un’altra delle faccette stampate sulle loro canottiere (pardon, t-shirt), e però con una convinzione diversa e maggiore, che va oltre il banale discorso delle mode e del consumismo di miti più o meno fasulli, che periodicamente, regolarmente, attraversano le società giovanili americanizzate. Perché i giovani pensano di dovere davvero qualcosa a Steve Jobs, con la loro possibilità di usare i suoi strumenti e di ricavarne diletto, conoscenza e comunicazione con gli altri. Come se il diletto rendesse più intelligenti e padroni di sé, la conoscenza enciclopedica e l’immediatezza delle notizie fossero sinonimo di cultura viva, e la comunicazione mettesse davvero in relazione con l’altro e permettesse uno scambio, un’interazione, un’azione. Come se i “mezzi” diventassero il fine nel momento stesso in cui lo tradiscono e negano, in cui creano nuove dipendenze, nuove droghe della coscienza invece che quella comunicazione che ci veda solidali in progetti comuni di liberazione.

C’è poco da sperare in una gioventù così succube dei media, e oggi non soltanto del loro discorso ma dei suoi strumenti “democratizzati”, alla portata di (quasi) tutti. L’unico effetto davvero positivo che è possibile riconoscere ai nuovi mezzi messi sul mercato dal “titano” Jobs (Il titano fu il titolo di un mirabile e dimenticato romanzo di Theodore Dreiser sulla figura del Capitalista americano, e l’impalcatura della vicenda non è affatto cambiata da allora) è quello di aver ridotto sensibilmente, forse enormemente, l’impatto della televisione, ma così come i nuovi mezzi alla Jobs ne sono la continuazione, così il fatto di possedere un proprio apparecchio televisivo portatile con programmi più vari, con un diluvio di programmi, di avere una specie di televisione propria emittente-ricevente non è un segno certo di liberazione ma invece di nuova e sempre più capillare sudditanza. Sì, Jobs è un’altra incarnazione del Grande Fratello dimostrato e denunciato da Orwell. E insomma, c’è non molto di nuovo sotto il sole, a parte le malattie concrete della Terra.
Schiavi della macchina che pensa per noi, come sempre? Uomini- macchina come, diceva Simone Weil, era nelle aspirazioni dell’umanità moderna e in modi più raffinati e più completi è dell’umanità post-moderna, con le sue avanguardie giovanili? Steve Jobs non è stato un benefattore dell’umanità, ma uno dei suoi più attuali e raffinati oppressori.

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402

IL CARDILLO INNAMORATO MILANO ADELPHI 1993

Una libreria antiquaria ha in catalogo questo titolo di Anna Maria Ortese a euro 6,00.

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annamariaorteseefranzhaaslugli
Da Archinto l'epistolario
con Dario Bellezza,
da Adelphi gli articoli
tra 1939 e 1994

Ortese,
lettere e letture
non comuni

di Gian Maria Annovi
(il manifesto, 11 ottobre 2011)

«Spiegarti questo orrore segreto di partecipare alla cultura italiana di buon livello – è impossibile. Sai, sarebbe come rientrare malvestiti e invecchiati in una casa di potenti – dove tutti sono sempre vestiti in modo impeccabile, e soprattutto sono rimasti gli stessi». Il senso di disagio rispetto all'ambiente letterario italiano che Anna Maria Ortese esprimeva in una delle lettere all'amico Dario Bellezza, da poco raccolte in un volume intitolato Bellezza, addio (Archinto, pp. 103, euro 15), è pari solo a quello per i decenni in cui il nome di questa straordinaria scrittrice, dopo un esordio fortunato, è stato di rado pronunciato.

Di fianco alla sua opera, in un giusto contrappasso, molti dei romanzi del Novecento mostrano oggi i propri limiti, quando non appaiono consunti dal tempo trascorso, proprio come abiti fuori moda. Questo, ovviamente, solo agli occhi di chi crede alla Letteratura, ossia per pochissimi, perché – come Ortese notava in un lontano scritto sul carteggio di Cechov e Gorki, ora ripubblicato insieme ad altri suoi splendidi scritti letterari, «non c'è forse, dopo l'Italia un altro Paese al mondo dove ciascuno abitante abbia come massima ambizione lo scrivere, e ce n'è pochi altri, per così dire, sull'attenzione dell'altro, come la pioggia su un vetro».

Se qualcosa ci mostra il carteggio tra Ortese e Bellezza, testimonianza di un'amicizia ventennale, è un grande e rarissimo esercizio di attenzione da parte di quest'ultimo nei confronti dell'opera dell'amica. Della scrittrice del Mare non bagna Napoli Bellezza condivide la visione profondamente deformata e dolorosa del reale, la compartecipazione alla sofferenza degli oppressi, ma soprattutto il sentimento di mostruosità della condizione dello scrittore in un mondo che «va diventando – o ritornando naturale e muto, salvo il gran rumore del niente». Anche Bellezza si sentiva «una bestia che parla», proprio come la verdastra protagonista del romano L'Iguana (1965), l'esempio più brillante dell'inclassificabile sperimentalismo ortesiano e in assoluto uno dei capolavori della letteratura italiana del secolo scorso, che il poeta – morto di Aids nel 1996 – volle sepolto con sé.

Il ritratto di Anna Maria Ortese che emerge dal carteggio è quello di uno scrittore in lotta con la parola («in certi giorni, la parola salta, scompare proprio fisicamente»), alle prese con difficoltà esisteziali ed economiche che solo il sussidio Bacchelli, ottenuto proprio su interessamento di Bellezza e di altri intellettuali riuscirà in parte ad alleviare prima del successo inaspettato de Il cardillo addolorato (1993), che farà della scrittrice ormai ottantenne un caso letterario internaionale.

In un universo abitato da apparizioni e visioni, il mondo di una «zingara assorta in sogno» come ebbe a dire Italo Calvino [Elio Vittorini], scrivere per Ortese «è essere reali» e leggere diventa un modo per intensificare questo senso di realtà altrimenti sempre sfuggente. Lo mostrano proprio gli scritti giornalistici di Da Moby Dick all'Orsa Bianca (Adelphi, pp. 187, euro 13) dedicati ad altri grandi scrittori e pubblicati tra il 1939 e il 1994 su giornali e riviste: «leggere una pagina di Cecov (sic), è come mettere l'occhio su un vetro nitidissimo e guardare scorrere la vita». Per questa lettrice la letteratura è un modo di vedere la vita da un'angolazione totalmente altra, e allo stesso tempo «un'esigenza di verità, di resistenza al male, dovunque esso sia», come scrive a proposito del Diario di Anna Frank.

Attraverso una scrittura sorprendente, che nulla ha a che vedere con quella della critica letteraria cui siamo oggi abituati, ma che si fa a sua volta vibrante accadimento di letteratura, Ortese ci parla di quelli che considera fratelli e sorelle maggiori: tra questi Elsa Morante, che come lei ha creduto nella «inesistenza», Leopardi «che intese e sofferse tutte le nostre disperazioni», ma soprattutto scrittori stranieri come Thomas Mann ed Ernest Hemingway, «un pezzo di mare e di vento, un pezzo di cielo, e una fitta di sole», cui è dedicato un commovente e insieme vitalissimo ricordo in occasione della sua morte. Da lettrice davvero poco comune, se non unica, Ortese non ci invita tanto al rispetto per la grande letteratura, ma ci mostra come attraverso di essa ci si possa educare alla libertà del pensiero.

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Una scuola molto colorata
di Goffredo Fofi
(l'Unità, 9 ottobre 2011)

Goffredo
Ci sono persone probe e intelligenti perfino tra i funzionari dei nostri ministeri, a riprova della vecchia convinzione che il seme del bene alligna anche dove meno si pensa. In ogni ufficio postale, in ogni tribunale, dovunque, su dieci persone che vi lavorano ce ne sono tre (ma forse pecco di ottimismo) che mandano avanti l’ufficio e cercano di rimediare alla diffusa sinecura degli altri sette verso la cosa pubblica o, peggio, alla diffusa cura per gli interessi di una lunga catena di “amici” e amici degli amici. Della riforma dello stato non si parla più da anni, mentre per fortuna si ricomincia a parlare – non in Italia – di quella che i benestanti chiamano lotta di classe, che altro non è oggi che la convinzione, fatta ad alta voce e lottando, che bisogna risolvere per prima la questione dei super-ricchi, in questo e in tutti i paesi del mondo.

Occorrono leggi adeguate e giuste, non più di questo, ma si ha di fronte il potere immenso dei ricchi, con la loro catena di prezzolati e di complici presenti anzitutto tra politici e funzionari d’ogni ordine e grado. Le leggi continuano a farle costoro, e il popolo nel cui nome le si fa è più che mai un popolo bue. In particolare in Italia: incapace di reagire e di farsi sentire, a causa della possibilità che è stata lasciata al potere e ai suoi funzionari di corromperci e addormentarci.

È ormai chiaro a tanti che si sta vivendo un’epoca decisiva per le sorti del paese e dell’umanità. Ed è chiaro che bisogna affrontare i nuovi tempi con idee nuove e con una morale a tutta prova. Ma le facce sono sempre le stesse, e non si vede ancora chi potrebbe rimpiazzarle, a destra come in una sinistra da tempo succube della destra per non avere idee e ambizioni diverse da quelle della destra. Diceva il solito Flaiano tanti anni fa che “i comunisti sono coraggiosissimi nel fare l’autocritica degli altri”, ma oggi non si tratta soltanto dei post-comunisti, si tratta di tutti. E già prosperano le piccole volpi che si aggiornano e riciclano dimenticando come hanno vissuto in tutto questo tempo e intonando nuove prediche, che riguardano le colpe degli altri e mai le proprie.

Ha osato ripresentarsi in questa veste perfino il più berlusconiano tra i politici della sinistra, l’ineffabile Walter americano di Roma.
Come al solito, mi capita di cominciare un discorso e di tornare invece ai soliti mali maggiori: la lingua batte dove il dente duole, e in casa dell’impiccato viene spontaneo parlare di corda. Ma dicevamo dei probi e rari che pur ci sono, e che sono tra le poche cose che tengono insieme un paese anche quando la loro visione non va in profondità. Una salda moralità a volte non basta, e ci vorrebbe qualcosa di più. Anche se è già moltissimo, come nel caso di un libro bello, sano, istruttivo e perfino commovente come "Noi domani". "Un viaggio nella scuola multiculturale" scritto da Vinicio Ongini per Laterza. Ongini è, pensate, un funzionario del Ministero dell’istruzione, dove lavora all’ufficio integrazione alunni stranieri. Egli ha girato l’Italia in lungo e in largo e racconta, vivaddio, non nuovi esempi dello sfascio ma esempi positivi di scuole dove in qualche modo, e con molta fatica, la scuola è davvero un servizio pubblico e si occupa senza pregiudizi di tutti i bambini che hanno il bisogno e l’obbligo di frequentarla. Da Cuneo a Treviso, da Cremona a Firenze, da Roma a Reggio Calabria, da Lecce a Palermo, da Matera a Napoli… Esempi virtuosi, nonostante i ministri e nonostante la povertà delle leggi e la miseria dei mezzi di una scuola pubblica aggredita dalla politica, che non ha nessuna intenzione di tagliare i redditi alti e altissimi ma ha tutta l’intenzione di far pagare i costi della crisi a chi sta sotto e a chi si è illuso, e forse s’illude ancora, di star nel mezzo.

Il suo è un rendiconto fatto di “note di viaggio” nella scuola multiculturale che è, né più né meno, che la fucina del futuro del paese. C’è forse un po’ troppo ottimismo nelle sue relazioni e nelle sue conclusioni, ma egli è certamente nel vero quando riassume il senso della sua inchiesta in tre punti: la sorpresa di scoprire un’Italia nuova che nessuno davvero racconta (anche se, aggiungo, tanti fanno finta di raccontare), la necessità di far sì che questo patrimonio di esperienze che sono insieme pedagogiche e sociali non si disperda, la constatazione delle “mille diversità” di una scuola “molto più sfaccettata, colorata, ricca di creatività e voglia di fare di quanto si immagini”.

E’ un piacere saperlo e tornare a convincersene anche se, per affrontare ciò che questo comporta, occorrerebbe che, oltre a far bene ognuno il proprio dovere nel posto in cui si opera, si lavorasse ad analisi più vaste, necessariamente più radicali, e si definissero i nuovi obiettivi di lotta, e ci si organizzasse per diffonderli, agitarli, raggiungerli, nel presente mutato e verso un futuro che non promette molto di buono.

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Il Nobel per la letteratura
al poeta svedese
Tomas Transtromer

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E per iniziare
si spenga la tv
di Goffredo Fofi
(l'Unità, 2 ottobre 2011)

il mio amico Goffredo

Grande è il disordine nel mondo, ma piccolo, ripetitivo, ininfluente vi è il disordine italiano, con l’ossessiva e angosciante impressione di rimescolamenti sempre al livello più basso, di aggiustamenti che non incidono sulla corazza della politica. Dove la “casta” c’è, chi può negarlo?, e nuove cavallette presto vi si faranno spazio aggiungendosi alle vecchie e riuscendo, con fatica, a scacciarne qualcuna. A sinistra, la novità sono sinora De Magistris Vendola e dio-ne-scampi Renzi, più o meno “carta conosciuta”, come si diceva a Napoli un tempo. Ci sono da attendersi anche la novità di una nuova Democrazia cristiana, secondo le non inermi aspirazioni di un Vaticano tardissimo a svegliarsi dalla tacita e proficua accettazione del berlusconismo, e di una destra anche estrema che si dirà sociale, eccetera. Un balletto stantio.

La crisi sta producendo finora effetti secondari, plateali tentativi di riciclaggio che sono particolarmente evidenti (sempre all’avanguardia nel paese dei trasformisti e dei clientes) soprattutto nel più ipocrita dei mondi, quello dei media, che è riuscito ad accogliere pienamente nel suo seno quello delle arti. Se ne vedranno, si fa per dire, delle belle. Ma in questo “tutto cambi perché poco cambi” ci si dimentica sempre il problema maggiore, sul quale tornano a insistere non i filosofi e pensatori italiani, esaltati dalle loro passerelle festivaliere, ma qualche altro nel mondo sì, che è quello di come ridurre (o abolire) l’oscena distanza che corre tra i ricchi e i poveri, l’esigenza di una società più equa, il sine-qua-non di diritti comuni e del controllo delle avidità private, corporative, mafiose. Il francese Rosanvallon, per esempio, poco noto ai modaioli italiani, insiste nei suoi ultimi saggi, proprio su questo. Ed è proprio pensando a questo che le mie convinzioni e indignazioni pauperiste si riaccendono, pensando per esempio al dislivello corrente tra i grandi entertainer televisivi e giornalistici e le persone comuni, perché se per abolire la distanza tra un Agnelli e me ci vorrà più di una crisi e più di una rivoluzione, per quelle, mettiamo, tra Santoro e me, basterebbe una legge che abbassasse lui, senza affatto pretendere che innalzi me, che ho, per ora, quel che mi basta e perfino qualcosa di più. Pretendo solo che guadagnino meno lui, e quelli come lui, la cui funzione sociale non giudico affatto più pregevole della mia o di quella di milioni di altri italiani.

Molti anni fa, durante un governo di sinistra, venne in mente a uno sciagurato grande politico “post-comunista”, di propormi un’alta carica televisiva che ovviamente rifiutai. Ma mi divertii a pensare a come si sarebbe potuto affrontare il moloch Tv e ridare una funzione positiva a un mezzo che si era trasformato col tempo in un mostruoso strumento di addormentamento dei suoi utenti, chiave di mercato e di governo per il tramite della pubblicità diretta e indiretta, della manipolazione delle coscienze. Affidato a una schiera di servi e prosseneti. Avrei proposto la chiusura per tre anni delle televisioni, di tutte, lasciando ai tre canali statali la possibilità di trasmettere a orari fissi notiziari solo letti o al più con poche immagini fisse, la riproposta serale di vecchi film e sceneggiati scelti da critici competenti per due ore al massimo, e nel pomeriggio di disegni animati per bambini, preferibilmente europei. Durante quei tre anni, una commissione internazionale di probiviri formata da psicologi e filosofi, sociologi e antropologi di specchiata intelligenza e riconosciuta serietà, mai provenienti dalla tv e dal giornalismo, avrebbe dovuto studiare come una diversa tv avrebbe potuto essere d’aiuto alla crescita dell’intelligenza dei suoi utenti. Beninteso, sarebbero stati licenziati in tronco tutti i dipendenti della Rai-tv, che avrebbero potuto, volendo, ripresentarsi tre anni dopo ai concorsi per le nuove assunzioni (con regole stabilite dai probiviri di cui sopra), senza usufruire di nessun privilegio rispetto ai nuovi aspiranti.

Questi sogni erano forse sogni da “dittatura illuminata” più che da democrazia, ma sognavano le forme di una nuova democrazia, tagliando dalle radici ciò che contribuiva alla sua morte. Sogni, in ogni caso. Oggi che la crisi della tv comincia a essere evidente a tutti, provocata dai nuovi mezzi non meno rischiosi, forse è il momento buono per sognarli di nuovo, perché è di sogni simili, anche se più saggi e meno fantastici di questi, che la crisi che stiamo attraversando. in un paese incapace di ripensarsi, avrebbe bisogno mentre invece si assiste e si assisterà, come sempre, a nuovi aggiustamenti, a nuove ambiguità, a nuove compromissioni che non risolveranno granché. È di grandi e non di piccole riforme che questo tempo ha bisogno, e del coraggio di pensarle, proporle, imporle.

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Giorgio Bocca: un ex partigiano rincoglionito
 
Giorgio Bocca, ex partigiano, invecchia male: prima simpatizzava per i fascisti della Lega ora in una videointervista afferma: "Nel Meridione c'era sempre il contrasto fra paesaggi meravigliosi e gente orrenda… Vai a Napoli ed è un cimiciaio ancora adesso, sono zone urbane marce e inguaribili come il cancro…". Povero Bocca! Ha perso la ragione e forse non è più in grado di trattenere le feci (che traboccano abbondanti): mettetegli una museruola-pannolone!
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