Se in Italia
tornano
i forcaioli
di Goffredo Fofi
(l'Unità, 23 ottobre 2011)
Ci sono parole del linguaggio politico di un tempo che sono scomparse dal vocabolario anche se, si spera, non dal sentire comune. Una di queste è «forchettoni», inventata più di mezzo secolo fa da qualche buontempone del Pci per indicare i boss della Dc, ma che oggi potrebbe avere un valore universale, almeno in chiave metaforica, per indicare i super-ricchi e la classe dirigente palese e quella occulta (la finanza). Un’altra che mi è tornata in mente leggendo i commenti di politici e giornalisti sugli scontri di Roma di otto giorni fa è «forcaioli».
Ma prima di affrontare questa bassa materia, sarà meglio aggiungere qualche considerazione, cercando di farlo a freddo, sui manifestanti del 15 scorso. C’ero anch’io, per un primo tratto e mi ha impressionato, anche se a distanza, la violenza organizzata, organizzatissima, di un’infima minoranza di «arditi» che non mi sembra abbiano molto a che vedere con la tradizione storica dei violenti di sinistra, anarchici e autonomi compresi. Anche se molti degli ex sono pronti a metterci su la bandierina, e ho sentito persino paragonare i «violenti» a quelli di piazza Statuto, Torino 1962, ma lì io c’ero e posso testimoniare (se si vedano gli atti processuali e il bel libro di Dario Lanzardo) che i moti nacquero dall’incontro tra i giovani della Fgci e i giovani operai immigrati delle piccole fabbriche. I manifestanti violenti di oggi sono, mi sembra, un fenomeno nuovo e non solo italiano, frutto di un’epoca radicalmente nuova che mi pare solleciti, più che risposte di sinistra, risposte più o meno apocalittiche che concentrano in sé una mescolanza di idee di destra e di sinistra. È questa una tendenza che richiede analisi approfondite e accorte per poter essere compresa e, quando necessario, adeguatamente combattuta. Certamente non si tratta di «compagni che sbagliano», anche se sono cresciuti sull’assenza di idee di sinistra credibili e adeguate ai bisogni dell’epoca. Perché, che cosa vuol dire essere di sinistra, fuori dalle retoriche dei salottini benestanti e dei residui burocratici, e solo tali, del passato? Una cosa molto semplice e molto disattesa: è sinistra l’organizzazione degli oppressi, variamente oppressi, per una società giusta, e di questo non c’è per ora segno in Italia, e l’adesione alle loro lotte e ideali di gruppi di persone che, per amore di giustizia, si mettono dalla parte degli oppressi, ritenendosi in qualche modo oppressi essi stessi, dall’ingiustizia subita da altri.
È un discorso antico che l’epoca in cui viviamo prospetta in termini certamente nuovi anche se i «teorici» della sinistra vecchia e nuova non sembrano essersene accorti, ma non diversi da quelli di ieri nella sostanza e nella spinta etica, che è quella della ribellione all’ingiustizia subita o vista subire da altri. Il problema non è solo quello di un manipolo di violenti, che hanno dalla loro una radicalità e una capacità di organizzazione che non hanno le maggioranze degli «indignati», ma cosa opporre di più saldo e forte che sia adeguato ai bisogni del tempo, alla crisi che ci è stata imposta, da un manipolo di criminali in grado di condizionare e far schiava la politica, che sono loro i primi responsabili di ogni violenza, distruttori del pianeta e nemici di ogni giustizia. Il problema è la stragrande maggioranza degli «indignati» incapace per ora di organizzarsi e di reagire con modi nuovi, come altrove già succede, alle violenze del sistema e a quelle di una minoranza organizzata.
Faceva impressione nel corteo romano l’andamento iniziale da passeggiata dimostrativa o da marcia della pace, l’assenza pressoché assoluta di servizi d’ordine e perfino di cordoni, l’impreparazione all’eventualità di scontri: un’impreparazione dovuta al mancato trasferimento di modelli, esperienze, riflessioni da una generazione all’altra, a questi «nuovi» sia da parte della vecchia sinistra che da quella che si proclamava nuova.
Un vuoto scandaloso. La via d’uscita ci sarebbe ma è appunto quella che non va bene a nessuno dei partiti e gruppi, dei nuovi e vecchi ideologi, e che si chiama disobbedienza civile, una proposta che evidentemente non appare consona alle mistificazioni italiche dei violenti, come dei nonviolenti, dei politici e dei fedeli servitori del potere economico. Torniamo ai «forcaioli». Uomini politici e giornalisti hanno dato prova di un coraggio da leoni nel gridare al lupo sulle loro gazzette e nell’invocare le maniere forti, leggi liberticide e abusi polizieschi. Sono tanti e tutti eroici, costoro, nel chiedere e nell’invitare il potere a innalzare forche per i dissidenti, per i non-accettanti. E sono loro, io penso, tra i principali nemici della democrazia e della giustizia oggi in Italia, e non solo dei movimenti che ineluttabilmente, buoni o cattivi, verranno.
Da Archinto l'epistolario
con Dario Bellezza,
da Adelphi gli articoli
tra 1939 e 1994
Ortese,
lettere e letture
non comuni
di Gian Maria Annovi
(il manifesto, 11 ottobre 2011)
«Spiegarti questo orrore segreto di partecipare alla cultura italiana di buon livello – è impossibile. Sai, sarebbe come rientrare malvestiti e invecchiati in una casa di potenti – dove tutti sono sempre vestiti in modo impeccabile, e soprattutto sono rimasti gli stessi». Il senso di disagio rispetto all'ambiente letterario italiano che Anna Maria Ortese esprimeva in una delle lettere all'amico Dario Bellezza, da poco raccolte in un volume intitolato Bellezza, addio (Archinto, pp. 103, euro 15), è pari solo a quello per i decenni in cui il nome di questa straordinaria scrittrice, dopo un esordio fortunato, è stato di rado pronunciato.
Di fianco alla sua opera, in un giusto contrappasso, molti dei romanzi del Novecento mostrano oggi i propri limiti, quando non appaiono consunti dal tempo trascorso, proprio come abiti fuori moda. Questo, ovviamente, solo agli occhi di chi crede alla Letteratura, ossia per pochissimi, perché – come Ortese notava in un lontano scritto sul carteggio di Cechov e Gorki, ora ripubblicato insieme ad altri suoi splendidi scritti letterari, «non c'è forse, dopo l'Italia un altro Paese al mondo dove ciascuno abitante abbia come massima ambizione lo scrivere, e ce n'è pochi altri, per così dire, sull'attenzione dell'altro, come la pioggia su un vetro».
Se qualcosa ci mostra il carteggio tra Ortese e Bellezza, testimonianza di un'amicizia ventennale, è un grande e rarissimo esercizio di attenzione da parte di quest'ultimo nei confronti dell'opera dell'amica. Della scrittrice del Mare non bagna Napoli Bellezza condivide la visione profondamente deformata e dolorosa del reale, la compartecipazione alla sofferenza degli oppressi, ma soprattutto il sentimento di mostruosità della condizione dello scrittore in un mondo che «va diventando – o ritornando naturale e muto, salvo il gran rumore del niente». Anche Bellezza si sentiva «una bestia che parla», proprio come la verdastra protagonista del romano L'Iguana (1965), l'esempio più brillante dell'inclassificabile sperimentalismo ortesiano e in assoluto uno dei capolavori della letteratura italiana del secolo scorso, che il poeta – morto di Aids nel 1996 – volle sepolto con sé.
Il ritratto di Anna Maria Ortese che emerge dal carteggio è quello di uno scrittore in lotta con la parola («in certi giorni, la parola salta, scompare proprio fisicamente»), alle prese con difficoltà esisteziali ed economiche che solo il sussidio Bacchelli, ottenuto proprio su interessamento di Bellezza e di altri intellettuali riuscirà in parte ad alleviare prima del successo inaspettato de Il cardillo addolorato (1993), che farà della scrittrice ormai ottantenne un caso letterario internaionale.
In un universo abitato da apparizioni e visioni, il mondo di una «zingara assorta in sogno» come ebbe a dire Italo Calvino [Elio Vittorini], scrivere per Ortese «è essere reali» e leggere diventa un modo per intensificare questo senso di realtà altrimenti sempre sfuggente. Lo mostrano proprio gli scritti giornalistici di Da Moby Dick all'Orsa Bianca (Adelphi, pp. 187, euro 13) dedicati ad altri grandi scrittori e pubblicati tra il 1939 e il 1994 su giornali e riviste: «leggere una pagina di Cecov (sic), è come mettere l'occhio su un vetro nitidissimo e guardare scorrere la vita». Per questa lettrice la letteratura è un modo di vedere la vita da un'angolazione totalmente altra, e allo stesso tempo «un'esigenza di verità, di resistenza al male, dovunque esso sia», come scrive a proposito del Diario di Anna Frank.
Attraverso una scrittura sorprendente, che nulla ha a che vedere con quella della critica letteraria cui siamo oggi abituati, ma che si fa a sua volta vibrante accadimento di letteratura, Ortese ci parla di quelli che considera fratelli e sorelle maggiori: tra questi Elsa Morante, che come lei ha creduto nella «inesistenza», Leopardi «che intese e sofferse tutte le nostre disperazioni», ma soprattutto scrittori stranieri come Thomas Mann ed Ernest Hemingway, «un pezzo di mare e di vento, un pezzo di cielo, e una fitta di sole», cui è dedicato un commovente e insieme vitalissimo ricordo in occasione della sua morte. Da lettrice davvero poco comune, se non unica, Ortese non ci invita tanto al rispetto per la grande letteratura, ma ci mostra come attraverso di essa ci si possa educare alla libertà del pensiero.