A proposito di liste
di froci velati..

Vivo in un'isola ancora molto primitiva, arretrata, ottusa, limitata, ignorante, ignobilmente clericale, inguaribilmente fascista, decisamente tradizionalista (della peggior specie), irrecuperabilmente reazionaria e qui, a Ischia la presa delle froce clericali (i preti ricchioni) è ancora molto forte. Per non parlare dei loro degni seguaci. Io ho vomitato la chiesa cattolica ischitana, l'ho espulsa da me nel 1974 e mi sono liberato dalle sue bassezze e turpitudini a 17 anni ma osservo la repressione e i mezzucci cui sono costretti i giovani gay locali. Qui da noi, non sono arrivati ancora gli influssi della Rivoluzione del 1789 ed è tutto dire…

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Anna Maria Ortese

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Da circa 2 ore ho ricevuto il pacchetto con il volume: Da Moby Dick all'Orsa Bianca, l'antologia di scritti giornalistici di Anna Maria Ortese, appena uscito da Adelphi.

Che caduta di stile, vedere in appendice due letterine, una delle quali addirittura priva della firma (e l'inconscio talvolta gioca brutti scherzi!) indirizzate a Fleur Jaeggy (nome a me del tutto ignoto) e perfino il risvolto di copertina di un romanzino orrendo di Dario Bellezza, L'amore felice. La postfazione (Una «uncommon reader») è un compitino da ripetenti di terza elementare. Anna Maria Ortese avrebbe meritato (forse) di meglio…

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Un mondo
a classe unica
di Goffredo Fofi
(l'Unità, 18 settembre 2011)

Goffredo Fofi e Giorgio Di Costanzo - Ischia, 9 marzo 2008

Ma come sono brutti i film di Venezia! Almeno quelli che si è riusciti a vedere finora, molto amati dalla critica e della giuria. Se Polanski e Cronenberg si sono limitati, come fanno ormai quasi sempre, a mettere magnificamente in scena, esaltandone potenzialità, i testi di commediografi piuttosto mediocri (la Reza, lo Hampton) che hanno affrontato grandi problemi con molta astuzia e buona documentazione, e se è pur sempre bello vedere degli ottimi prodotti cinematografici in mezzo a tante sguaiate scemenzuole buoniste o cattiviste realizzate con grandi mezzi o con mezzi tv, la marea delle sciocchezze è travolgente, e quelle italiane sono in testa: nate stupide, o nate bene ma cresciute malissimo.

Qualche eccezione ci sarà, è statisticamente prevedibile, tra i film che non ho ancora visto… ma le troveremo più facilmente tra i film molto modesti ma moralmente controllati, o tra quelli molto ambiziosi ma poco costosi e ridondanti. Non mi è sembrato un capolavoro neanche il film di Sokhurov, il leone d’oro, che è un autore con la a maiuscola e tra i pochi che ci restano in Europa (in Italia abbiamo Olmi e la metà di due o tre altri, con qualche speranza da riporre in alcuni giovani che promettono benissimo e che si spera non si perdano per strada, come Frammartino, Marcello e la Alice Rohrwacher). Il suo "Faust" mi è parso più bello cinematograficamente che profondo filosoficamente, molto sfocato rispetto ai dilemmi del nostro presente – della cui confusione o mediocrità, del cui chiacchiericcio evasivo e mediatico sono testimonianza i festival di filosofia e della mente di questi giorni.

Anche i geni annaspano, e non riescono ad acuminare a dovere le loro frecce, perché il presente è davvero incerto e il futuro è nebuloso, maleodorante e spaventante… e se noi ne capiamo poco, anche loro non scherzano! È proprio per questo motivo che segnalo ai lettori di questo giornale, a fine stagione (l’anno, come è noto, va sempre da un settembre all’altro, e questo secolo è nato in un 11 settembre che ne ha anticipato gli orrori), un romanzo che in Italia fatica a farsi strada e che forse è un capolavoro ma certamente uno dei più intelligenti e sinceri del nostro tempo, uno dei pochi non superflui e davvero "necessari". Si tratta di "Vite che non sono la mia" di Emmanuel Carrère (Einaudi), che farebbero bene a leggere anche sociologi e filosofi, storici e antropologi, e in definitiva tutti gli appartenenti a quell’immenso ceto medio che è l’Europa di oggi.

Molti dei più vecchi tra noi devono aver constatato che da anni e anni non capita più di sentire o leggere quella che è una volta era l’accusa, giustificata o meno, che da sinistra e da destra si faceva a tanti scrittori registi e gente comune: Sei un piccolo-borghese! È un piccolo-borghese! È da piccolo-borghesi! Non è che la piccola borghesia sia scomparsa: chiamiamola ceto medio e forzatamente dobbiamo constatare che essa ha al contrario dilagato, che con l’arrivo di un certo stato dei consumi, ci siamo fatti tutti piccolo-borghesi, quantomeno culturalmente e “antropologicamente”. Da una cultura unica, è nata una classe unica, che possiamo amare o detestare, ma alla quale dobbiamo riconoscere di appartenere, che "siamo noi". La stragrande maggioranza della popolazione dell’Europa meno emarginata.

Già un grande scrittore della seconda metà dello scorso secolo venuto dalla fantascienza sociologica, James G. Ballard, aveva preconizzato nei suoi ultimi romanzi che le rivoluzioni future sarebbero nate dall’interno di questo ceto, un ceto che i potenti (i veri “borghesi” di oggi, culturalmente piccolo-borghesi anche loro ma che però sono a capo di banche e parlamenti) avrebbero finito per massacrare economicamente, come sta avvenendo in modi che si fanno di giorno in giorno più evidenti. Carrère è l’alternativa al cinismo-narcisismo-esibizionismo degli Houellebecq, rappresentante di un ceto medio che si odia e che dice pessimisticamente (con un pizzico di verità, ammettiamolo!) che «l’umanità non merita di sopravvivere».

Carrère è arrivato invece alla convinzione, dopo le prove di cui racconta in un romanzo tutto di cose e di persone vere e a lui vicine, che solo dall’interno di questo immenso ceto medio mondiale, e per cominciare europeo, potrà nascere – e anzi, secondo gli esempi che porta, è già nato – un modo di lottare contro le ingiustizie e contro il male efficace e propositivo, costruttivo e non distruttivo anche perché molto chiaro nell’individuazione del nemico da combattere, da condizionare, da abbattere. Non è poco, in mezzo a tanti filmetti e romanzucoli che puzzano di ipocrisia lontano un miglio, i romanzi degli sciacalli e degli avvoltoi che si fingono buoni, dei “professionisti del bene” di cui è sempre più consigliabile diffidare. Sono milioni, prodotti anche loro dal ceto medio di cui stiamo parlando e a cui oggi appparteniamo tutti. La lotta è dunque "all’interno" della nostra unica classe, nel nome di chi ne è escluso ma anche per la nostra stessa salvezza e per la salvezza dei nostri figli.

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ANNA

Un paese di scrittori
di Anna Maria Ortese

Non c' è forse, dopo l' Italia, un altro Paese al mondo dove ciascun abitante abbia come massima ambizione lo scrivere, e ce n' è pochi altri dove quel che ciascuno scrive – pura smania di dilettante o regolarissima professione – scivoli, per così dire, sull' attenzione dell' altro, come la pioggia su un vetro. Ma scivola è un' espressione indulgente: inquieta, offende, avvilisce, si vorrebbe dire. Ogni abitante-scrittore se ne sta sul suo manoscritto come il bambino, a tavola, col mento nella sua scodella, sogguardando la scodella, cioè il manoscritto, dell' altro: e se quello è più colmo, sono occhiatacce, lacrime… si sente parlare del tale, del tal altro che ha pubblicato o sta per pubblicare un nuovo libro. Subito, chi ha questa italianissima passione dello scrivere, o dello scrivere ha fatto il suo mestiere, si precipita a vedere di che si tratta, e in che cosa il rivale si mostri inferiore a quel che se ne dice, o si temi. Se il sospetto, la paura, si rivelano infondati, è un sollievo tinteggiato di nobile comprensione: «Un buon libro… Hai letto l' ultimo libro di T.? Certo potrebbe far meglio… L' ho sfogliato appena – e me ne dispiace – ma non ho mai il tempo di leggere…». Ed è vero: perché se appena alle prime pagine il rivale appare quel che si desidera – un mediocre – cessato l' allarme, la sua modesta fatica non interessa più. Quando già alle prime pagine, invece, lo scrittore-lettore si rende conto di trovarsi di frontea un' autentica novità e forza, il colpo che ne riceve è così brusco che, lì per lì, non riesce a fiatare, e se ne sta zitto e disfatto nel suo angolo. Di continuare non se ne parla, prova una specie di nausea. In un secondo momento, però, scoppia la reazione: si tratta di un' opera indegna, una vera truffa letteraria, «ma dove andiamoa finire di questo passo… vedrai che a quello gli danno un premio…», e così via. E il premio qualche volta arriva, e allora è un dolore, un lutto generale, e si cominciano a scrivere articoli abilissimi dove si parla perfino del primissimo elzeviro dello studente di Caltagirone, o si elevano entusiastiche lodi all' ingegno di V., che, novantenne, ha ristampato l' intera mole delle sue opere, insipide e pesanti come patate: e solo si tace il nome del vero colpevole, l' ultimo arrivato, che non è stato al gioco d' infilare le parole l' una dopo l' altra, semplicemente, ma ha «adoperato» la parola, l' ha mortificata mettendola al servizio di alcuni interessi. Interessi! Non è che gli scrittori italiani non ne abbiano, e anche belli e vivi: ma nulla, ad essi, per tradizione e per gusto, è più caro del piacere di scrivere; e si sa come gli interessi, le passioni, le ire, la costante ricerca di una verità che non sia soltanto quella della nostra pelle, ma la verità tua e mia, siano contrari a questo raffinatissimo tipo di piacere. Raffinatissimo per i vecchi, naturalmente. Per i giovani, e non mi riferisco, s' intende, a una giovinezza di soli anni, scrivere, se ci sono delle passioni o delle collere da raccontare, è anche un piacere, ma per caso. Non scrive per provare piacere, insomma, un giovane: scrive per farsi uomo, uomo che esprime gli altri, che riveli in sé gli altri, che sia un' aggiunta al patrimonio degli altri. Si capisce così, data questa tendenza degli italiani a concepire lo scrivere come un piacere, perché da noi tutti scrivano e nessuno legga, e quello che minaccia di farsi leggere dagli altri che non siano gli scrittori colleghi sia considerato un intruso e gli si tolga magari il saluto (…); si capisce perché la nostra letteratura sia in genere un soliloquio, uno sfogo forbito oppure curioso, mai un' autentica voce, un richiamo, un grido che turbi, una parola che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze, il lampo di un giorno nuovo. Noi scriviamo per piacere a noi stessi, nel migliore dei casi; nel peggiore, agli altri: quando avremmo bisogno ogni giorno di ripeterci che siamo la più fastidiosa espressione della nullità, nella più arretrata e insignificante delle nazioni. Esemplare espressione di un costume e anche di un Paese dove le lettere, nella loro generalità, non furono mai finia se stesse, ma modo di esprimersi di quegli interessi e passioni che, soli, fanno umana la vita dell' uomo, e proprio per questo diventano a volte altissima letteratura,è il carteggio M. GorkiA. Cechov. (…) Cechov e Gorki non erano soltanto due illustri letterati, in certo senso non lo erano affatto, erano due enormi scrittori, non vivevano per scrivere, ma scrivevano per vivere normalmente, per divenire, per realizzarsi come uomini veramente liberi, come spiriti in cui moltitudini di uomini si sarebbero ritrovati, riconosciuti, e sarebbero a loro volta divenuti sinceri, onesti, liberi.E per questo, perché essi non avevano altro scopo, i libri e le regole dello studio, del mestiere di scrivere, ritornavano, come dovrebbe essere, al ruolo di secchi strumenti, e per la vita guardata allo specchio non c' era posto. Contava la vita nuda. Contava l' immersione continua nel mare doloroso del mondo, contava il coraggio con cui si affrontava la vista di tutto il male, le sofferenze, le vergogne possibili; e il collega era semplicemente, nella grande lotta contro tutto ciò che opprime l' uomo, un compagno, la cui opera, a quel fine, era importante quanto la propria. Perché si proponeva qualche fine, allora, l' intelligenza. Un fine superiore al piacere, alla pelle. Ed ecco l' interesse profondo di uno per l' altro, il rispetto, l' ammirazione, la solidarietà, il bene. Cose che fanno sorridere, adesso. Ma a leggere, in segreto, questo carteggio, ecco che il cuore si mette a battere, e non siamo più nel nostro Paese, e neppure nel nostro tempo, siamo molto lontano, non si vedono manifesti, ma si odono voci: e gli occhi splendono, le mani ardono.
(Anna Maria Ortese: Da Moby Dick all'Orsa Bianca, Adelphi, 2011)

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Risvolto
 
Hemingway era «un pezzo di cielo, e una fitta di sole» scriveva Anna Maria Ortese nel luglio del 1961 commentando l’improvvisa scomparsa di colui che le sembrava appartenere ad anni «non ancora macchiati da carneficine o tumefatti in ghiacci spaventosi» e a una generazione di padri-leoni dalla «santità animale», estranei a una intelligenza «che oggi ha scarnificato l’uomo»: con le sue opere, infatti, Hemingway proclamava l’esistenza del Tutto di cui l’uomo è parte, e attraverso i suoi occhi ragionava tranquilla e maestosa la Natura. Non v’è dubbio: chi cercasse in questi scritti che coprono oltre cinquant’anni di attività giornalistica (dal 1939 al 1994) accorte recensioni, sagaci squarci di storia letteraria, dotte e politiche riflessioni sul romanzo sarebbe del tutto fuori strada. Il metodo di lettura di una uncommon reader come la Ortese ha a che vedere anzitutto con quella «doppia vista» di cui andava dolorosamente fiera e che, quando discorre di Leopardi o di Anna Frank, di Cechov o della Morante, di Saffo o di Thomas Mann, le consente di mettere subito a fuoco, con temeraria sicurezza, la loro profonda necessità in rapporto al compito della vera letteratura: che dev’essere, sempre, «un’autentica voce, un richiamo, un grido che turbi, una parola che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze, il lampo di un giorno nuovo». Compito radicale, nobile, impervio, al quale corrisponde un linguaggio lontano anni luce dalla critica letteraria cui siamo abituati, e che sembra evocare, più che definire, i suoi oggetti. Magia verificabile: sarà difficile, ormai, leggere Cechov senza avvertire, in risonanza, le parole che la Ortese gli ha dedicato.
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Attenti agli sciacalli
di Goffredo Fofi
(l'Unità, 11 settembre 2011)

Goffredo Fofi, Maestro

Non è così difficile distinguere tra coloro che, pieni di buona volontà, cercando di investigare, raccontare e denunciare le storture del contesto italiano o globale, lo fanno perché questo va atrocemente di moda, e quelli che lo fanno per una persuasione profonda e non di superficie. La parola persuasione viene dal linguaggio capitiniano (di Capitini è stato appena ripubblicato da Laterza un grande libro di straordinaria valenza politica proprio in rapporto al nostro oggi, Religione aperta) e sa di messa in discussione radicale del modo di stare al mondo e reagire alla storia e mi sembra sia da preferire alla parola indignazione, che sa di reazioni umorali e non di convinzioni profonde. Capitini la mutuò dal saggio di Michelstaedter La persuasione e la retorica (Adelphi), e il contrario di persuasione è appunto retorica. Ci sono dunque i persuasi e i retori tra coloro che investigano, raccontano e denunciano, e i retori sono la stragrande maggioranza.

I retori sono oggi anche coloro che, cambiando il vento, dopo aver retto la scena negli ultimi decenni, vogliono rimanere a galla e si adeguano, non diversamente da quei finanzieri, economisti, politici e alti funzionari che, dopo aver precipitato il mondo in una crisi da cui usciremo, se usciremo, con le ossa rotte, continuano paradossalmente a gestir loro la cosa pubblica e la finanza privata e a indicare loro le soluzioni alla crisi, a decidere loro cosa deve andar bene per noi, per tutti. (E come non vedere, in queste settimane, l’affermarsi di nuove forme di imperialismo economico, in Europa e nel mondo, come reazione allo sfascio delle classi dirigenti nazionali?)

Ma parliamo dei retori, che spesso si comportano né più né meno che da sciacalli, e prosperano sulle disgrazie altrui, filmandole, raccontandole, cantandole, disegnandole, recitandole. Per carità, sempre mossi da grandi indignazione e da grandi sentimenti di (astratta) solidarietà. Non è una cosa nuova, ma fa una certa impressione in questi tempi perché è il mercato ad aver scoperto e imposto il racconto delle disgrazie opportunamente romanzate, indicando la strada a migliaia di scrittori e registi, di cantanti e attori, di giornalisti e saggisti “umanitari”, vecchi e giovani, maschi e femmine. E in giro non c’è molto d’altro – super-eroi, televisione e videogiochi a parte per i senza-cuore. Non c’è altra abbondanza, a Venezia e a Mantova e in ogni luogo della rappresentazione della cultura, dello spettacolo della cultura – un parola che nessuno sa più bene cosa vuol dire visto che copre tutto e la si usa per tutto.

Un modo per distinguere i retori dai persuasi dovrebbe essere quello di vedere come i retori vivono, il loro reddito (perché no?), e cosa fanno per cambiare il mondo e per mitigare l’ingiustizia, cosa fanno per coloro che la disgrazia ha colpito. Questa disgrazia può essere sia economica che politica, sanitaria o culturale (e in questo caso, la parola cultura va applicata anzitutto ai modi in cui si viene educati) o infine naturale (terremoti e tsunami e altre cataclismi).

Un modo, molto più delicato da gestire, è anche quello di affrontare e giudicare le opere. Restiamo nell’attualità: a Venezia si sprecano i film e a Mantova i libri che affrontano i grandi temi del male contemporaneo, e che dicono tutti di stare dalla parte degli oppressi e degli afflitti, degli sfruttati e dei malati, e insomma dei perdenti o dei transitoriamente perdenti. Sono il “genere” culturale dominante, l’industria grande e piccola ne va ghiotta, i giornali ne vanno pazzi. Come distinguere tra loro, dunque, le opere dei persuasi da quelle dei retori (e tra i retori, dei veri e propri sciacalli)? Il discorso a questo punto è anche estetico, perché non basta la sincerità delle dichiarazioni per dare validità a un’opera, occorre anche il talento dell’autore, la forza della sua visione. Per esempio, quanti sono i film, le inchieste, i romanzi, le musiche, gli articoli che a Venezia e a Mantova parlano degli immigrati e degli incontri o scontri di culture nel nuovo assetto che il pianeta sta cercando faticosamente di darsi o stanno cercando di dargli con la globalizzazione e di cui non possiamo prevedere il risultato? Tanti, tantissimi. Ma quali sono “belli” e quali “brutti”? quali i sinceri e quali gli opportunisti? quali opera di artisti e quali di sciacalli?

Non sono andato a Venezia e non andrò a Mantova – “già dato” e mi è bastato – e dovrò dunque aspettare che quei film sia possibile vederli in sala o in altre occasioni (o in dvd), ammesso che ne senta l’attrazione e il bisogno, ma ho il sospetto che non sia affatto difficile distinguere i Retori e i Persuasi, nonostante la glassa dei media, le chiacchiere dei giornalisti e altri comunicatori. Sarà comunque opportuno, a visione avvenuta e persuasi nelle proprie idee e nel proprio istinto, dire la nostra. Oggi questo è un dovere irrinunciabile, perché grande è il disordine nel mondo mentre è piuttosto omogeneo il modo di reagirvi del mercato culturale e dei suoi funzionari, e sono facilissimi i modi di piangere e denunciare che ha a disposizione chi vuol farsi strada nel mondo dei privilegiati. In ogni caso mai come in questi anni il dire conta meno del fare.

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Il massacro degli innocenti
di Goffredo Fofi
(l'Unità, 4 settembre 2011)

Goffredo Fofi

Com’era prevedibile, la crisi colpisce i deboli e salva i ricchi – la classe dirigente, quale che sia il suo colore e la sua collocazione. E chi sono i più deboli dei deboli? Certamente i bambini e gli adolescenti, i “nuovi nati” al mondo, alle società che se lo dividono e alle culture che vi dominano. Si riaprono le scuole, gli asili come le università, i luoghi in cui una cultura – uno stile di vita, un sistema di valori, e non solo delle specifiche conoscenze – viene trasmessa da una generazione di adulti a una nuova generazione. Ma mai come oggi la scuola ha perso di peso e di sostanza, e solo raramente, per merito di insegnanti di buona volontà e non di dirigenti mossi dal calcolo e dalle astuzie della politika, qualcosa di non superfluo (o di nefasto) vi passa dall’adulto al bambino o all’adolescente, qualcosa che non viene considerato inutile, dati i modi e i contesti in cui esso viene proposto, dai suoi destinatari.
Mentire ai piccoli e illuderli è meno facile di quel che sembra, perché essi imparano l’essenziale dai comportamenti degli adulti e non dalle loro parole, o menzogne. È anzi per questo che il nostro paese è culturalmente (antropologicamente, oggi e proprio oggi) un paese disastrato, umanamente e politicamente fiacco e sfiancato, privo di energia e di progetto e teso soltanto alla miglior sopravvivenza possibile per i singoli, per le famiglie, e semmai per i clan e cioè per “le famiglie” non di sangue costruite su interessi particolari. A dominare, qui e nel mondo, sono gli interessi delle “famiglie” più forti, alcune delle quali – di fatto le più importanti, quelle con maggior potere decisionale – sono occulte o quasi occulte. Chi conosce, tra noi comuni mortali, i nomi dei grandi della finanza e i rapporti che corrono tra loro? E chi ha davvero la capacità e la forza per contrastarli ? Chi ha progetti alternativi credibili? Di modelli di sviluppo contrari a quelli correnti si continua infatti a parlare molto, anche troppo data la ripetitività delle denunce e delle proposte, tra gli studiosi e i critici di questo modo di “crescere”, ma non si vedono ancora i soggetti sociali in grado di imporli ai padroni dell’economia e della finanza e ai loro funzionari nella politica, quasi sempre più servi che funzionari. E questi modelli altri hanno anche l’handicap dell’assenza di fascino per i soliti comuni mortali: chi rinuncerebbe, per esempio, all’automobile privata o ad altri simili consumi entrati nelle abitudini di tutti?
Il mondo sta attraversando un periodo molto difficile, da cui si uscirà, se si potrà uscirne, tra lacrime e sangue, e il peggio del peggio che può capitare saranno guerre tra poveri manipolate dai ricchi. Le vittime maggiori di tutto questo sono, è ormai opinione corrente, i giovani. Circolano in Francia un libro e un film in cui si investiga su quei giovani che, per pagarsi gli studi universitari, si prostituiscono, necessariamente e perfino candidamente non avendo altre strade. Quelli che sanno usare la rete mi dicono che questo fenomeno esiste anche a Roma. Questi giovani non fanno che prendere atto della dura legge dell’economia borghese: chi non è ricco può sopravvivere e farsi strada nel mondo solo vendendo la propria forza lavoro o, se nessuno la vuole, se il mercato la rifiuta, vendendo quello che hanno – la propria gioventù, il proprio corpo.
In altri casi, ai giovani che non credono più alla possibilità di farsi strada con il pezzo di carta della laurea (e che laurea!), o che sono cresciuti in situazioni di degrado tali per cui han fatto poca e pessima scuola (si legga quel capolavoro del realismo pedagogico napoletano che è Insegnare al principe di Danimarca di Carla Melazzini, Sellerio), rimane la possibilità di arruolarsi nella camorra o nell’esercito. (Lo stesso Sellerio sta per pubblicare un libro di analisi e ricette sulla crisi della scuola scritto da un emerito professore che è stato – modello emiliano – tra i principali artefici, al tempo del ministro Berlinguer, della linea che fu poi seguita dalla Moratti, e in questo caso più che di colpe bipartisan si dovrebbe parlare delle colpe del “liberismo comunista”, che sarebbe, a rigor di logica, un non-sense.)
Si riaprono le scuole, e il modo in cui la compunta “esperta” che fa la ministra continua a raccontarci storie nel mentre che usa le forbici e taglia dove la resistenza è minore – appunto tra i meno abbienti – ci pone di fronte ad altri aspetti del “massacro degli innocenti” che va crescendo nel mondo, crisi aiutando. Dove ancora un po’ di benessere sopravvive, le logiche del mercato e della comunicazione (cioè della pubblicità) hanno finito per corrompere i genitori come gli insegnanti (e ci capita di incontrare, purtroppo, più insegnanti decenti che genitori decenti) e hanno finito per rendere ugualmente isterici gli adulti come i bambini; dove regnano la scarsità e il bisogno, i nuovi nati sono le vittime principali, sono tanti e sono facilmente, cinicamente sacrificabili. Il disprezzo per i bambini e per i giovani, il massacro morale o materiale dei bambini e dei giovani è la spia della vocazione suicida del genere umano? Non credo di essere il solo ad avere quest’incubo.

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Edoarda Masi
1927 – 2011
ha concluso il suo viaggio.

Docente di Letteratura cinese all'Istituto universitario orientale di Napoli. Ha vissuto a Pechino e a Shangai, dove ha insegnato. Tra le sue opere: "Per la Cina" (1978), "Il libro da nascondere" (1985), "I dialoghi di Confucio" (1989). Ha tradotto alcuni libri di Lu Xun, "Il sogno della camera rossa" e l'indimenticabile "Cento capolavori della letteratura cinese" Collaboratrice dei "Quaderni rossi", "Quaderni piacentini" e del "Manifesto". Einaudi ha ultimamente deciso di  cancellare dalle sue edizioni le opere della Masi.

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300px-tsvetaevaMarina Ivanovna Cvetaeva
26 settembre 1892
31 agosto 1941

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Fabrizia Ramondino
75 anni anni fa,
la nascita di
Fabrizia Ramondino…

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