La mia amica, Amelia RosselliA sette anni dalla morte
Roma ricorda,
con una serie di manifestazioni,
la poetessa
[sic!]
figlia di Carlo Rosselli:
una voce estranea
ad ogni sorta
di potere sociale e letterario
La musica atonale
della poesia
di Amelia Rosselli
di Elio Pecora
(l’Unità, 2003)

Elio Pecora

Amelia Rosselli. La sua poesia viene da un’energia indistinta: che si manifesta attraverso una lingua spessa e ardita, in cui la sostanza del dire, l’asprezza e la grazia dell’esistente, resistono all’impasto complesso, non di rado arrischiato, dei significanti. Come se, da una materia sparsa e ribollente, prendessero corpo gesti ed eventi che, sottratti all’indicibile, conservassero di questo lo sgomento e la spinta. Come se, ad un passo dalla negazione, venisse affermata la passione di chi sosta nel mondo e lo traversa.

Nella sua scrittura in versi, la cui misura trascorre dall’atonale al parlato e sovverte ordini e norme, sottrae cadenze all’inceppo e allo sbaglio, travalica le accezioni, la Rosselli racconta l’amore e la paura, il desiderio e la delusione, i territori della mente e dell’anima e quelli della città e della storia. Una tensione irreprimibile dà alle sue frasi, spesso chiuse come vaticini, un vigore assai raro. Questa tensione mescola i linguaggi, li addensa, li stravolge; pervenendo a un patto linguistico nuovo e diverso in cui, allo sfascio dei vecchi codici, succede una nuova dimensione dell’essere e dello stare. Introducendo a un’antologia poetica della Rosselli, edita da Garzanti nel 1986, Giovanni Giudici scriveva: «(la Rosselli) riconquista la nostra lingua comune quasi fosse una lingua straniera».

E qui va dato almeno qualche cenno del destino singolare di Amelia Rosselli, intreccio di gravi sofferenze e di altissimi doni. Nata a Parigi nel 1930, figlia di Carlo Rosselli, vive bambina la tragedia del padre assassinato [dai fascisti]. Di madre americana trascorre l’adolescenza a New York, studia musica e composizione, si trasferisce in Italia e a Roma negli anni Cinquanta.

Poco più che ventenne si dedica alla scrittura poetica portando in questa i suoi studi musicali avanzati, un’attenzione elaboratissima alla poesia contemporanea europea ed americana, la dimestichezza con tre lingue. Scrive versi in francese e in inglese e, al 1958 in poi, in un italiano che, per forza interna e novità d’impasto, la situa in un posto solo suo, distante anche da quello occupato dalle avanguardie. Estranea ad ogni sorta di potere sociale e letterario, passa distratta e indifferente anche ai riconoscimenti che vanno crescendo intorno alla sua opera. Legge i suoi versi, in grandi adunanze e in piccoli teatri, con una voce-strumento che si leva da spazi remoti, che accomuna e confonde anima e visceri.

A chi le è stato amico, e a quanti l’hanno anche solo qualche volta ascoltata leggere, torna all’orecchio e al cuore il tono uguale e fondo della sua voce che dipana frasi affilate come coltelli, lievi come libellule, e mai s’incrina, e dice alludendo, e conforta mentre assale, e ignora cautele, e avanza nei territori della parola che è tramite e svelamento anche dove più appare oscura e imponderabile.

Nel 1962, in una riflessione nuovissima sugli «spazi metrici», scriveva: «La realtà è così pesante che la mano si stanca, e nessuna forma la può contenere. La memoria corre allora alle più fantastiche imprese (spazi, versi, tempi)». Incontro a una tale memoria la spingevano i fantasmi e le voci che l’assediavano, ma là si ritrovava intatta e sicura. E là seguitiamo a ritrovarla, ogni volta che torniamo alla sua poesia.

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2 risposte a

  1. saldan ha detto:

    Caro Giorgio,

    ottima cosa proporre sempre Amelia Rosselli.
    Colgo l’occasione per salutarti con gli auguri di un bellissimo duemiladieci . Che sia pieno di lavoro, creatività, ozio e buona salute.
    Un fraterno saluto

    Saldan

  2. anonimo ha detto:

    Che è come dire quel che disse Giudici, che "non per nulla nella tradizione italiana moderna, il suo precursore più probabile è Dino Campana" e naturalmente è da questo conflitto che si ha scrittura e fascino per "una umiltà istintuale che ci porti a rivivere e a riconquistare la nostra lingua comune quasi che fosse una lingua straniera; e Amelia Rosselli, in ciò ‘aiutata’ da ben note circostanze di nascita e di vita, ha attinto a questo privilegio", una lingua poetica, che non tanto esprime "quanto è essa stessa un dérèglement di rimbaudiana memoria", ovvero "di una prosodia fondata non più sul rapporto fra accenti tonici e numeri di sillabe, ma finalmente su valori di quantità, intensità e durata, epperò tutt’altro che liberi".
    V.S.Gaudio, Amelia’s Spring, "Zeta" n.82, Campanotto editore, Udine dicembre 2007:pag.25.

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