ElsaLe poesie della Morante
Il mistero di Elsa
di Elio Pecora
("Il Mattino", s.d.)

Elio PecoraI capelli folti, lo sguardo lontano, l’abito alla moda, i gioielli, le scarpette col tacco puntuto, siede fra Penna e Pasolini accanto ad un tavolo impero, davanti ad una specchiera d’oro zecchino, in casa Praz. La fotografia, tagliata da un rotocalco, trovata fra le carte penniane, è del 1958, l’anno di Alibi. Il libro è appena apparso – insieme a Croce e delizia di Penna ed a L’usignolo della chiesa cattolica di Pasolini – nell’edizione longanesiana voluta e curata da Nico Naldini.

Elsa, in quel tempo, frequenta la società letteraria, fa lunghi viaggi, è l’autrice ammirata di Menzogna e sortilegio e de L’isola di Arturo, premiato l’anno prima dagli amici dello Strega. (Di lì a qualche anno, dopo la morte di Bill Morrow, dopo la separazione da Moravia, lascia per sempre gli abiti lussuosi, i salotti, lo stuolo dei letterati spettegolanti. Si chiude nella casa di via dell’Oca con gli amatissimi gatti siamesi, legge al sole in terrazza, ascolta musica, scrive di pomeriggio fino a metà della notte, esce per raggiungere trattorie remote e piazze assolate in compagnia di amiche e di amici incantati di lei. Il resto è noto: il successo enorme de La storia, la malattia, il mancato suicidio, il romanzo Aracoeli, e nel 1985 la morte).

Vale per l’anno in cui appare Alibi – che oggi ci viene reso in caratteri più grandi e chiari, fasciato nel tenero verde della collana di poesia dell’editore Garzanti – il ritratto che, di recente, ne ha dato Cesare Garboli: «Il volto paffutello, gli occhi dolci e un po’ torbidi, esperta di ogni civetteria e fondamentalmente innocente, era condannata a una misura di superiorità che le toglieva la gioia di sentirsi amata, o la costringeva all’impossibilità di esserlo».

È proprio la pena d’amore a star dietro e dentro le sedici poesie di Alibi, la prima scritta nel 1941 l’ultima nel 1957, tre già incorporate in Menzogna e sortilegio, una quarta già posta a dedica de L’isola di Arturo. Ed è pena, ma anche ebbrezza amorosa, che ha per oggetti e soggetti un gatto, una gatta, un adolescente, un uomo fascinoso, e ancora un universo di creature, di eventi, di cose evocate, anzi inventate da un’immaginazione, mai ferma, sempre appassionata. E qui, una volta ancora, è da citare Garboli: «Elsa era tutta nell’immaginario. La sua grande passione per la realtà si spiega anche con l’impossibilità, in lei, di trovare una resistenza, un limite alla finzione». Finzione che può anche rischiare l’estetismo e la maniera, ma che sempre ha per partenza e per approdo un credo assai fermo nella sostanza poetica dell’avventura terrestre, l’attrazione per quel che Paolo Milano, recensore di Alibi, chiamò «il lirico mistero di cui le vicende umane sono il riflesso».

 Nei velami di un tale mistero si muove l’io che chiama a sé stagioni e gesti, creature e animali. Il respiro è ampio; la visione è circolare; la musica s’impenna, s’estenua, accenna un motivo che a volte si chiude in un sospiro, a volte s’interrompe in un richiamo, in un grido. Ogni verso dice il desiderio di chi, esistendo, vuole esistere di più, assai di più. Fulcro e sorgente di tutto è un sogno, un fantasma, gloria e castigo per tanta poesia moderna: il paradiso iniziale, luogo negato di una totale beatitudine, assoluto di amore e di grazia. Da questo paradiso vengono la promessa e l’attesa di chi si prouncia, da esso si affacciano le persone amate, i diletti animali, circonfusi di innocenza, brevemente visti e sfiorati, mai veramente accostati, tenuti.

Così Minna la siamese della prima poesia; così la fanciulla Saruzza, assai somigliante a Immacolatella, la matrigna di Arturo; così il gatto Alvaro, e ancora il ragazzo vigilato con la trepidazione della madre, l’uomo chiamato con l’umiltà dell’amante rifiutata. E ci sono Amleto e Sheherazade, e una ressa di fantasmi chiamati da lei, barbara ancella, imprigionata nelle norme terrestri, eppure mai sconfitta, mai definitivamente delusa. Abitatori di mondi conclusi e intoccabili, maschere per un dramma interminabile, questi fantasmi somigliano tutti ai personaggi dei romanzi morantiani, ne portano le ossessioni, le mitologie, le contraddizioni, ne ripetono il segreto. Ed è quello che l’autrice stessa confema, in una breve nota introduttiva al libro, scrivendone come di «un’eco» o di «un coro» dei suoi romanzi. Anche se, per un eccesso di pudore, subito dopo li confina nel «gioco» e nel «divertimento».

Ma, se di gioco si tratta, è per intero il gioco morantiano, interminabile corsa di specchi, alternanza di ferocia e di tenerezza, commistione di segretezza e di svelamento, dove a muovere il tutto è un eroe fanciullo – lei, l’autrice – che non cede al disamore, e si fa cacciatore delle amate «angeliche belve», dimentico delle passate sconfitte, pretendendo di snidare l’errore, di oltrepassare l’inganno. Un tale eroe viene di lontano, dai sogni dell’infanzia, dagli antichi poemi cavallereschi, da una forza sentita in un istante di pienezza, nel balenio di un Eden solo intravisto.

Se in queste sedici poesie udiamo certi ritmi che risuonarono poi ne Il mondo salvato dai ragazzini, poema-manifesto che precorse le rivolte giovanili e le accolse in un teatrino disperato ed esaltante; se in esse possiamo rintracciare certe simpatie per Saba (i gatti, creature di un universo misterioso ed inconoscibile), certe vicinanze a Leopardi (la certezza della propria tragica sorte, lo strazio dell’uomo consapevole della precarietà e della morte); è indubitabile quel che l’edizione garzantiana afferma nel risvolto del volume: «Anche in poesia Elsa Morante nasce da se stessa».

Resta, a questo punto, anche a noi di sperare, anzi di confidare, in una nuova storia della poesia italiana del Novecento in cui l’opera poetica morantiana abbia finalmente un posto: ampio, sicuro, solitario.

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